Io non ci sono (ed è meglio così)
di Sandro Veronesi
Il primo scrittore che ho visto in carne e ossa in vita mia è stato Romano Bilenchi. (Avevo vent’anni e a Firenze avevo conosciuto un suo bis-nipote. Gli avevo chiesto se potevo far visita al suo bis-zio, lui si era informato e l’appuntamento era stato combinato per una domenica sera. Venne anche lui, ma se ne stette zitto tutto il tempo, mentre Bilenchi mi raccontava di Papini e Prezzolini, di Landolfi e di Cassola, di Malaparte e del Nuovo Corriere Fiorentino. Così, la domenica successiva andai da solo. Abitava in una casa dalle parti dello stadio, e stava sempre chiuso in camera sua, dove l’aria era azzurra per via del fumo delle sigarette che fumava di continuo: lì teneva la macchina da scrivere, i libri, i quaderni, e un televisore a colori. Poiché andavo a trovarlo la domenica sera, guardavamo insieme la Domenica Sportiva, dopodiché lui sfogava il suo odio di tifoso della Fiorentina in lunghe catilinarie contro la Juventus. Io non gli ho mai detto che la Juventus era la mia squadra del cuore: ho preferito fingermi poco interessato al calcio, come la maggior parte degli intellettuali di quegli anni – e di questo lui mi rimproverava.
Esauriti gli obblighi calcistici, ricominciava a raccontarmi degli anni d’oro della sua vita, la guerra e il dopoguerra, giacché del suo periodo giovanile, in cui era stato fascista, preferiva non parlare. Io lo ascoltavo, ovviamente, e per quel che potevo seguivo con piacere i suoi racconti: ma principalmente lo guardavo. Guardavo il suo volto arcigno, le sue mani adunche che finivano sempre dove cominciava una sigaretta, i suoi occhi arrabbiati, la sua zazzeretta alla Mastro Ciliegia, ancora quasi del tutto nera). Fin lì, gli scrittori li avevo visti solo in fotografia. Poi mi sono trasferito a Roma, e ho cominciato a vedere molti scrittori in carne e ossa, e sono diventato scrittore io stesso, finché un giorno mi sono accorto che erano di più gli scrittori che vedevo di persona di quelli che vedevo in fotografia. E tuttavia…
E tuttavia quello che era stato per anni l’unico modo per me di vedere uno scrittore è rimasto il mio preferito – e questo pur sviluppando nello stesso tempo una violenta insofferenza a farmi fotografare. Ma in effetti non c’è contraddizione: a me non interessa di vedere me, come sono fatto lo so anche troppo bene; a me interessano gli altri. Ormai sono formato così, vedere gli scrittori di persona non mi basta, devo vederli anche in fotografia, altrimenti la loro conoscenza non mi pare completa. E tutto ciò, possibilmente, senza essere fotografato io.
Questo libro dunque per me è entusiasmante. Ci sono sei anni di scrittori di tutto il mondo passati dal Festival di Mantova, amici, premi Nobel, sconosciuti, esordienti, giovani, vecchi, ricchi, poveri, eleganti, trasandati, seduti, in piedi, lampantemente drogati, sobri, vestiti bene, vestiti male, belli, brutti, fotogenici, non fotogenici, a proprio agio, imbarazzati, sorridenti, seri, con gli occhiali da vista, con gli occhiali da sole, con la barba, con i baffi, con degli oggetti in mano, con la sigaretta in mano come Bilenchi, col sigaro, con la pipa, con le mani sul mento, con le mani giunte, che non sanno dove mettere le mani, con le braccia conserte, con le braccia lungo i fianchi, con la cravatta, col cappello, coi capelli lunghi, coi capelli bianchi, senza capelli – e io non ci sono. È proprio come quando ero ragazzo. O come quando ero bambino, addirittura, e prima che degli scrittori mi emozionavo a guardare le fotografie dei calciatori. Si chiamavano figurine, album delle figurine, e alla fin fine anche questo libro è un album di figurine: l’album degli scrittori, da sfogliare, leggere, scrutare, studiare, consultare, tenere a portata di mano, aprire a caso, farci le orecchie, consumarlo, mentre gli scrittori del mondo restano lì, docili, sempre a disposizione, nel loro sforzo eroico di essere se stessi anche senza scrivere una riga.