Ci avrei messo la mano sul fuoco che David Grossman portasse gli occhiali! Me lo immaginavo più giovane Erri De Luca! Sono questi i primi commenti che vengono in mente sfogliando il libro di Marina Alessi. Si prova infatti una certa soddisfazione nell’assegnare un volto a quegli scrittori che spesso la sera, tra un romanzo e l’altro ci tengono compagnia. Allo stesso tempo ci si rende conto dell’eleganza del tratto dell’autrice e della delicatezza e della profondità di alcuni sguardi ritratti. Ne parliamo con la fotografa, che ha incontrato gran parte del mondo letterario contemporaneo e di immortalarlo con una macchina fotografica d’altri tempi, o per meglio dire, in via di istinzione.
Sono pochissimi i fotografi che hanno scattato con la Giant Camera Polaroid e tu sei una di loro. Come ti è capitata questa occasione?
Negli anni ’80, il periodo d’oro della fotografia milanese, mi trasferii nel capoluogo lombardo, dopo aver frequentato l’Istituto Europeo di Design a Roma. Mi innamorai della concretezza e della professionalità di quella città e, quasi immediatamente, girando con il mio book fotografico sotto braccio, composto dagli scatti fatti agli amici, trovai lavoro e iniziai a collaborare con vari fotografi di moda. Ho lavorato per Giovanni Gastel, Oliviero Toscani e sono stata anche l’assistente personale di Giuseppe Pino. Poi ad un certo punto, quando mi accorsi che la gavetta era finita, ripresi a fotografare in teatro, cosa che avevo già fatto precedentemente a Roma mentre frequentavo la scuola e, a poco a poco, sono entrata in contatto con il mondo del teatro, del cinema e della discografia indipendente.
Nel ‘90 è iniziato un sodalizio con Claudio Bisio che dura tuttora. Ho fotografato tutte le trasmissioni di Zelig e ho realizzato varie locandine dei film di Aldo, Giovanni e Giacomo. Insomma sono diventata “la fotografa dei comici”. Ho sempre fotografato facce e mai oggetti perchè non ne vedo la bellezza, non ne vedo il senso. In principio esercitavo la professione come free lance, successivamente mi sono affidata a Photomovie, un’agenzia specializzata nello spettacolo, che è anche la rappresentante italiana della Giant Camera, una delle cinque macchine fotografiche della Polaroid esistenti al mondo, che producono immagini del formato di 50×60.
Quando nel 2000 mi venne in mente un lavoro sul mondo dei comici rivolsi lo sguardo alla Giant, che mi sembrava un ottimo mezzo per realizzarlo, è stato amore a prima vista. L’agenzia Photomovie mi diede l’opportunità di utilizzare la macchina e mi mise a disposizione della pellicola purchè non spostassi la Giant dallo studio. Si tratta infatti di una macchina fotografica molto pesante, è un banco ottico con soffietto contenuto in due scatole. La macchina ha bisogno di un tecnico specializzato per essere smontata e rimontata. Da quel progetto è nato Comicando, uno scorcio sul meraviglioso universo della comicità italiana, che nel 2004 è stato pubblicato sulla rivista GQ. Le tirature numerate, riprodotte con un banco ottico digitale e stampate su un plotter con carta fine art dall’originale, sono state vendute in occasione di una festa organizzata per raccogliere proventi da donare ad Emergency. Questo è stato il mio primo incontro con la Giant Camera Polaroid, ma non sapevo che da lì a breve avrei intrapreso una fantastica avventura che sarebbe durata addirittura sei anni.
Ti riferisci al Festival della Letteratura di Mantova?
Sì, sempre nel 2004 sono stata contattata dal mensile Vanity Fair che mi ha proposto di andare a Mantova a fotografare gli scrittori italiani e internazionali presenti al Festival della Letteratura. La rivista mi ha dato carta bianca, apprezzava come fotografavo e voleva che realizzassi dei ritratti, che sarebbero stati inclusi nelle sue pagine.
Quello con Mantova è stato un appuntamento che mi veniva confermato di volta in volta e che nel corso del tempo è cresciuto tantissimo fino a diventare un libro, Facce da leggere, edito dalla Rizzoli, uscito in libreria a settembre e che attualmente sto presentando in varie città italiane, l’11 dicembre sarò all’Auditorium di Lucca
Questo libro rappresenta per me il resoconto di un lavoro lungo e intenso, uno sguardo di insieme su un percorso durato sei anni, durante il quale ho realizzato duecentoottantadue ritratti a scrittori noti. L’anno scorso ho lavorato con una gran dose di leggerezza addosso, che forse traspare anche dalle immagini. Sapevo che il lavoro era ormai giunto a termine e che a breve avrebbe preso forma nelle pagine del mio libro, la ricompensa più ambita dopo tanto impegno.
Tra le fotografie che compongono il libro ci sono inseriti ventotto testi inediti composti da alcuni dei letterati fotografati. Nelle loro parole si evince il senso di ciò che è stato fatto, dell’esperienza condivisa. Mi colpiscono e mi inorgogliscono le frasi di Biondillo che definisce la fotografia più necessaria della scrittura. Questi testi arricchiscono il mio lavoro e lo rendono interessante anche agli occhi di un appassionato di letteratura che può finalmente mettere insieme il volto e i pensieri degli scrittori che ama. Anche per me è stato un po’ così. Quando, più o meno nel mese di luglio, venivo a conoscenza degli scrittori che avrei conosciuto e ritratto più o meno due mesi dopo, mi andavo a documentare su ognuno di loro e a leggere quei romanzi o saggi che non conoscevo. L’intento era quello di cercare un’emozione, un sentimento che poi avrei tentato di ritrovare e di reinserire nelle fotografie.
Quali emozioni suscita scattare con una macchina come la Giant Camera Polaroid?
Superata l’ansia dell’inizio, è cominciata un’avventura fantastica, la più belle della mia vita fotografica. Dopo il primo scatto ho avuto la sensazione di staccarmi dalla realtà e di essere sospinta in un meraviglioso mondo capovolto. Infatti nel vetro della macchina, sotto al panno nero che ti protegge dalla luce, tu vedi le persone capovolte e anche la destra e la sinistra sono invertite. Per cinque giorni ti dimentichi completamente di guardare dritto e quel nuovo approccio alle cose sembra che ti sia sempre appartenuto.
Come si svolgeva il lavoro?
Premetto che nel 2004 ho utilizzato la Giant Polaroid cecoslovacca, perchè quella gestita dalla Photomovie era al Festival del cinema di Venezia ad immortalare le Celebreties. Quindi ho avuto a che fare con un tecnico cecoslovacco, perchè, come ho accennato prima, ogni macchina ha un suo tecnico personale che se ne occupa. All’inizio la cosa più faticosa è stata spiegare agli scrittori che la macchina non si poteva spostare e che quindi erano loro che dovevano venire da noi, o meglio da lei per farsi ritrarre. Questo compito arduo spettava alle giornaliste che non avevano capito neanche loro esattamente come funzionasse la macchina e così, quando gli scrittori arrivavano da noi, avevano tutti uno sguardo sorpreso e sconcertato.
Una cosa che mi ha insegnato l’esperienza di Mantova è quella di rimanere con la testa aperta, di non farsi intimorire dai cambiamenti repentini. Noi avevamo una lista delle persone da fotografare, ma quando questa sequenza non veniva rispettata si doveva cambiare in maniera molto veloce il set, oppure essere in grado di adattare quella scenografia al nuovo arrivato. Per fortuna, già dal 2005, il numero dei miei assistenti si era triplicato, e con tutti e tre mi intendevo benissimo, dopo una veloce occhiata, sapevano come intervenire e come cambiare la scena.
Ogni mattina posizionavamo la macchina sotto un porticato, senza muoverla mai, quindi agivamo in uno spazio circoscritto, ed è per questo che di tanto in tanto ho inserito qualche elemento che parlasse della città, come delle colonne, oppure scattavo direttamente senza fondale, usando come sfondo i mattoncini rossi del muro che si trovava davanti alla macchina. L’utilizzo di fondali, gelatine colorate da mettere sulle luci da proiettare su uno sfondo grigio medio e l’inserimento di oggetti con una valenza simbolica come clessidre, mappamondi o spartiti musicali, sono stati necessari per rendere meno statica la situazione, ma ho cercato comunque di stare attenta a non esagerare per non scadere nel didascalico. Un elemento che torna spesso nelle mie fotografie sono le mani che, insieme agli occhi, a mio parere, caratterizzano tantissimo la persona.
E’ molto bello l’utilizzo delle luci che fai nella foto di Roberto Saviano. Quali espedienti hai utilizzato?
Avevamo a disposizione quattro luci, due davanti e due sul fondo, più una serie di ombrelli, bank e griglie. Nel caso dell’autore di Gomorra ho voluto illuminare solo una parte del suo viso, per creare un’atmosfera che fosse metafora della sua esistenza vissuta forzatamente in ombra.
Parlami della fase dello scatto.
La sessione non dura più di dieci minuti ma devo dire che si tratta di dieci minuti molto intensi. Quando arriva lo scrittore, lo si accoglie, si cerca insieme una posizione comoda da fargli tenere durante lo scatto, gli si spiega quello che sta per accadere e poi io passo a comporre l’inquadratura. Riguardo quindi la scena da dietro il vetro, al coperto e, una volta fuori, davanti alla macchina, mentre il tecnico chiude l’obiettivo e inserisce lo chassis con la pellicola, tento di tenere desta l’attenzione del soggetto e di ricreare in lui quel gesto o quell’espressione che mi aveva colpito mentre componevo la scena. Spesso in quei trenta secondi in cui sono vicinissima al soggetto, questo viene distratto dal rumorio prodotto dal tecnico e allora, per non far scemare la tensione, lo tocco, su una spalla o comunque in un posto neutro, per richiamarlo ma anche per far sì che non si sposti. Nel momento in cui mi sembra che accada qualcosa, quando la persona si mostra interamente all’obiettivo e lascia cadere per un attimo lo schema dell’esteriorità, quando non è più consapevole, non è ancora personaggio pubblico ma uomo o donna posto davanti all’obiettivo, spingo il dito sul flessibile collegato all’otturatore e poi aspettiamo tutti insieme un minuto e mezzo prima che sia pronta la pellicola e che possa essere vista per la prima volta.
Qual è l’atmosfera che si crea in quel minuto e mezzo?
Quei novanta secondi diventano un tempo lunghissimo, un istante d’attesa condiviso da tanta gente, da noi, dallo scrittore, dai giornalisti, dagli accompagnatori. Stiamo tutti lì con l’occhio allungato dietro le spalle di qualcun’altro ad aspettare in silenzio di rimirare il risultato. L’emozione raggiunge l’apice nei quindici secondi dello spellicolamento quando spesso il silenzio viene rotto dal fotografato che esprime la sua opinione sull’immagine ottenuta. Talvolta la tensione è smorzata da un applauso alla vista della fotografia, un’azione che mi suscita davvero tanta soddisfazione. In quei momenti, mentre aspettiamo, sono assalita da una doppia curiosità, constatare se lo scatto corrisponde a ciò che volevo realizzare e cogliere l’espressione sul volto del soggetto fotografato non appena il suo sguardo si incontra con la sua immagine ritratta sulla Polaroid.
La Giant Camera è uno strumento fantastico che ha la capacità di guardarti dentro, ti ridà un’immagine che è quasi un uno a uno con te stesso. Anche io mi sono lasciata ritrarre e devo ammettere che è un’esperienza emotivamente molto forte che non si ottiene con nessuna altra macchina fotografica. E’ inoltre una macchina con la quale non ti puoi permettere di sbagliare, le pellicole sono costosissime, quasi mai hai una seconda possibilità.
Come ti fa sentire l’idea di non poter sbagliare?
Mi piace tantissimo, mi fa salire l’adrenalina alle stelle. Certo è capitato qualche volta di dover ripetere lo scatto, ma questa è poca cosa rispetto al numero complessivo degli scatti. Credo che questa sia la condizione nella quale io mi esprimo al meglio e nella quale riesco a cogliere al massimo l’anima delle persone che ritraggo. Del resto, anche quando lavoro per il cinema o per la televisione, mi servo dello stesso modus operandi. Non lavoro mai su un layout predefinito, mi baso su un paio di indicazioni e preferisco risolvere l’immagine in funzione della situazione. Credo che la mia forza sia proprio questa, rendere bene in situazioni un po’ estreme.
Quali altre difficoltà si incontrano utilizzando questo tipo di macchina fotografica?
E’ una macchina che ti può intimorire perchè è imponente nelle sue dimensioni, una tonnellata di legno e ottone per un metro e mezzo di altezza. Pensa che le viene montato un obiettivo con una focale di 600 mm. Lo scopo è quello di riuscire a sfruttare prontamente le sue possibilità, imparando a riconoscerne i pregi e i difetti. E’ una macchina statica, quindi risulta difficile fare degli scatti in movimento. Certo si può sempre provare. Io ho anche scattato in orrizontale, sforzando un po’ la sua natura, perchè l’abbiamo dovuta montare girata. È una macchina con la quale puoi fare tante cose, ma non devi farle prendere il sopravvento. Persino guardare il tutto al contrario può risultare complicato se non si è propensi a farlo.
Nel nostro caso, come dicevo, la macchina veniva posizionata ogni mattina in un sottoportico, in una situazione interno-esterno, quindi abbastanza protetta sempre che non piovesse con il vento, ma comunque soggetta a cambiamenti di luce. Ogni volta che si metteva e toglieva lo chassis c’era il rischio che entrasse luce, perchè questa macchina, rispetto a quella newyorkese, è più soggetta alle infiltrazioni, quindi meno adatta a lavorare in esterni. E questo poteva diventare un problema, soprattutto nel caso delle doppie e triple esposizioni.
Ti riferiscial trittico di Alessandro Bergonzoni?
Esattamente. Quello è stato uno degli scatti più emozionanti, costruito sul filo del rasoio. Per prima cosa sono partita dalla foto centrale e ne ho preso i bordi segnandoli sul vetro interno con uno schotch di carta. Poi ho fatto il primo scatto su sfondo nero, per poter poi scattare nuovamente senza spostare la macchina ma facendo muovere il soggetto, prima da un lato e poi dall’altro.
Un’altra difficoltà è adattarsi al modo in cui guardi l’immagine dal vetro, non solo ribaltata e con destra e sinistra invertite ma anche frazionata. Stando così vicino non hai una visione di insieme, ma te la devi ricreare tu, scansionandola con l’occhio e con la mente pezzo per pezzo. Solo così puoi ottenere una visione globale.
E’ una macchina dotata di una grande forza comunicativa, ha il potere di mettere a nudo le persone. Se ci penso, è incredibile l’intimità che talvolta si è venuta a creare in quei dieci minuti di sessione. A causa della sua poca profondità di campo i fondali acquisiscono delle sfumature pittoriche ed eteree. Anche la carta più insignificante assume un tono magico e d’atmosfera.
Ma trovarti di fronte a dei premi Nobel non ti hai mai fatto sentire a disagio?
No. L’esperienza accumulata in più di vent’anni di lavoro mi ha aiutato moltissimo. Se mi fossi trovata ad affrontare questa impresa all’inizio della mia carriera non me la sarei cavata così bene. Nel tempo ho imparato a riconoscere le persone, a capirle velocemente e a pormi in maniera positiva nei loro confronti. Sul set sono stata definita “la fotografa dallo sguardo gentile” e francamente mi riconosco la capacità di entrare in sintonia con gli altri, certo non con tutti, questo dipende da vari fattori, ma in generale sono disponibile ed empatica.
La situazione più surreale ma allo stesso tempo buffa in cui mi sono trovata durante quei cinque giorni di Festival, si veniva a creare quando arrivavano contemporaneamente più scrittori da fotografare con dietro tutto il loro seguito di parenti, amici e addetti all’ufficio stampa. Da una parte gli entourage che, tentando di mantenere la calma, mi invitano ad affrettarmi e dall’altra c’erano i letterati, felici di incontrarsi, che facevano salotto e iniziavano a parlare. Negli ultimi anni, per agevolare questi incontri fortuiti, avevamo messo a disposizione sedie e tavolini. Si creava così questa situazione atipica, con noi impegnati tra pellicole, luci e fondali, i giornalisti stressati e ansiosi, e loro, i protagonisti di questo lavoro, che si godevano quei pochi minuti di chiacchiere e relax.
Tu hai fotografato Mantova con la Giant Camera fino al 2009. Come è possibile considerando che la Polaroid ha smesso di produrre la pellicola già da qualche anno?
Le immagini degli ultimi due anni sono state realizzate con materiale scaduto nel 2007. Ciò non ha comportato conseguenze negative se non una leggerissima alterazione dei toni e la presenza di alcune tenui striature bianche sull’emulsione, ma sono particolari che non hanno assolutamente compromesso la riuscita delle foto. Mi piacerebbe contattare l’agenzia di New York e sapere se a loro è rimasta della pellicola. Purtroppo la loro macchina e la nostra sono le uniche utilizzabili, se ci fosse ancora del materiale per la stampa in circolazione. Due delle cinque Giant Polaroid, infatti, appartengono a dei privati e la macchina cecoslovacca non funziona più perchè il suo tecnico, già da qualche anno, ha abbandonato tutto per andare a vivere in campagna e dedicarsi all’allevamento di cavalli.
E quali altri programmi hai per il futuro?
Continuare a fare quello che faccio da sempre, lavorare per il cinema e per la televisione. Attualmente sto scattando con un piccolo banco ottico, una Linoph tecnica 10×12 con il quale ho fotografato anche all’ultimo Festival di Mantova, ma quest’anno l’ho fatto in maniera completamente diversa, girovagando per la città. Inoltre mi piacerebbe che anche 44+1, un lavoro su alcuni street artists italiani, trovasse spazio sulla carta stampata, magari su una rivista d’arte. Si tratta di una serie di ritratti in bianco e nero scattati con una Contax medio formato 6×4,5 in pellicola e stampati 40×50 su carta fine art e applicati su alluminio, poi riconsegnati agli artisti che ci hanno dipinto sopra. Insomma vorrei insistere a fotografare facce, è quello che ho sempre fatto. E chissà, magari fare qualche altro ritratto con la Giant Camera Polaroid, pellicola permettendo.